mercoledì 21 aprile 2010

Il nuovo segretario del PD arriva in Ferrari


     La saggezza popolare esorta a dire che a pensar male si fa peccato ma molte volte ci si indovina. Forse questo è uno di quei casi. Nell'attesa che arrivi la soluzione definitiva della “scissione” interna al Popolo della Libertà durante la riunione del Direttivo Nazionale di domani, le agenzie hanno battuto una notizia che molti organi d'informazione (ma non tutti) hanno collocato tra le notizie riguardanti l'economia o, tirando delle conseguenze fantasiose, nello sport. A noi sembra, invece, una notizia che potenzialmente può riguardare molto da vicino la politica italiana.

     Stiamo parlando delle dimissioni dalla presidenza della Fiat di Luca Cordero di Montezemolo a favore dell'ultimo rampollo di Casa Agnelli John Elkann. L'alta finanza, in Italia più che in altri paesi, non cammina mai da sola ma va sempre a braccetto con la politica, e quest'ultima non deve necessariamente essere “alta”.

     La cronaca, prima. Già nella mattinata di ieri, a causa della convocazione di una conferenza stampa del Gruppo Fiat nel pomeriggio, l'attenzione degli investitori sul titolo del Lingotto era forte, fino a chiudere con un poderoso +9,26% alla fine delle contrattazioni. Per far capire la portata dell'incremento si può dire che il titolo Fiat ha guadagnato quattro volte in più rispetto al mese di Febbraio 2009 quando il governo Berlusconi varò il piano di incentivi alla rottamazione delle auto. Le battute di lingue biforcute non sono mancate: “Allora facevamo prima a rottamare l'autista!” tanto per far capire la situazione in cui versava il rapporto Agnelli – Montezemolo.

     L'uscita di scena di L.C.d.M. Ha, infatti, il sapore di un divorzio consensuale. Da parte Agnelli non erano mancate frecciate rivolte al Presidente detto traghettatore ed alcune prese di distanza come l'entrata di John Elkann in Confindustria al fianco della non proprio amata (da Montezemolo) Emma Marcegaglia. Il non averlo più così ingombrante in azienda ed averlo sostituito con una persona “di famiglia” è dunque, per il clan, una discreta liberazione.
Da parte sua il Luca non vedeva certo di buon occhio l'essere relegato ad un ruolo, oramai, subalterno e di mera rappresentanza come quello di Presidente di Fiat, visto che con il quasi sicuro scorporo del settore auto dagli altri rami d'azienda la chiave della stanza dei bottoni sarà unicamente nelle mani dell'amministratore delegato Marchionne.

     Oltre a questo (e qui veniamo a noi) si capisce dalle sue dichiarazioni come Montezemolo vivesse, di fatto, come un fastidio l'essere Presidente del più grande gruppo industriale italiano. Il non esserlo più, infatti, «mi permetterà – spero - di campare un po' meglio e poi di poter esprimere un po' più liberamente certe opinioni perché quando uno fa il presidente di un'azienda è tenuto a rispettare anche posizioni ed opinioni».

     E quali saranno queste opinioni così scomode da non poter essere dette dal Presidente della Fiat? Stiamo parlando di politica? Sembra proprio di sì.

     Partendo da questo assunto, allora, molte tessere del puzzle si inseriscono al proprio posto. Si capisce perché la sua fondazione “Italia Futura” abbia presentato ben due piani, per così dire, “governativi” sia sul fisco che sulla riforma della sanità ed anche – ad essere veramente maliziosi – perché Fini si sia lanciato nella sua rivolta proprio ora. Inoltre sarebbe chiaro perché il gruppo Repubblica-Espresso (cioè De Benedetti) si sia così impegnato nel tesserne le lodi, segno evidente che lo vedrebbero di buon occhio alla guida del PD, e perché Casini col suo UDC continuino a tirarlo per la giacchetta.

     Gli spasimanti, dunque, non mancano. Resterà da capire a chi alla fine l'Uomo del Monte (Zemolo) dirà il fatidico sì.

AG

martedì 20 aprile 2010

Più che una corrente... uno spiffero.


Tutto troppo semplice. Almeno all'apparenza. Intervistato da “il Giornale” a proposito – ça va sans dire – della questione Fini, il neo rieletto Presidente della Regione Lombardia Roberto Formigoni ha risposto: «si presentino due mozioni, le si votino e si vedrà così quale uscirà vincitrice. Un grande partito opera così».

Grazie tante. E' il sogno di ogni politico: convocare elezioni solo quando si è sicuri di vincerle; anzi di stravincerle come accadrebbe nell'attuale contingenza. Quanti tra di voi, infatti, punterebbero anche un solo soldo bucato sulle speranze di vittoria di un'eventuale “mozione Fini”? La domanda è, ovviamente, retorica e la risposta scontata. Questo non vuol dire, però, che non sia stata posta ai parlamentari ex-AN e gli esiti non sono certo stati incoraggianti per Bocchino&Co. Erano in cerca di 20 deputati e di 10 senatori per formare un gruppo parlamentare autonomo ma ne hanno trovati rispettivamente 18 e 9. Non proprio una corrente, semmai, appunto, uno spiffero.

Uno spiffero che, al massimo, può aver causato un raffreddore (più fastidioso che altro) al Presidente del Consiglio. Berlusconi, infatti, contrariamente alle precedenti crisi con Fini non sembra assolutamente aver voglia di fare sconti né, tantomeno, passi indietro.
«Se troveremo la quadra con Fini? Non dipende da me», ha risposto a Vespa. La posizione è dura, certamente, ma non si può certo dire che sia lontana dal vero. Fini ha deciso di rompere gli indugi e di passare il Rubicone; se poi, andando alla conta, ha scoperto di essere rimasto solo o quasi ed è per questo rimasto a metà del guado, il problema non può che essere il suo.

Deve esserci da parte Finiana, quindi, un'attenta analisi politica della situazione. E deve esserci in tempi brevi. Rimanere così allo scoperto sotto il fuoco incrociato potrebbe creare una frattura insanabile con gli elettori, ammesso che non si sia già creata.

In un paio di giorni è atteso un documento che Fini e i suoi hanno intenzione di presentare alla Direzione Nazionale del partito di Giovedì 22, alla presenza di Berlusconi stesso. Avremo modo perciò di leggere attentamente le motivazioni dello strappo e l'elenco completo dei parlamentari “dissidenti”. Che cosa ci aspetta dunque?

Alla fine la montagna potrebbe partorire un topolino. Scongiurata, al momento, l'ipotesi del gruppo parlamentare autonomo rimane una sola altra opzione: al prezzo di una nomina da far decadere (come per esempio la vice presidenza del gruppo PdL alla Camera di Bocchino), Fini porrà le basi per una semplicissima corrente interna di minoranza. Una posizione debole e temporanea, certo, ma che toglierebbe lui e i suoi dal centro del ciclone in attesa di nuovi sviluppi.

Non è da trascurare la presenza dei ministri leghisti Maroni e Calderoli alla riunione straordinaria convocata oggi da Berlusconi per preparare il big match di Giovedì. Il segnale è chiaro: l'asse della maggioranza è rappresentato da Berlusconi e da Bossi. Non si accettano interferenze da parte di “soci di minoranza”.


Giusto o sbagliato che sia starà a Fini l'onere di prenderne atto e di lavorare – sottotraccia sarebbe meglio per tutti – per ritagliarsi il suo spazio riconquistando la fiducia dell'elettorato che può arrivare solo rimboccandosi le maniche della camicia e ricreando quel rapporto con la base, i quadri intermedi ed i militanti che Fini sembra aver tralasciato preso com'era da tutta la pletora di associazioni-organizzazioni-fondazioni a lui vicine dove, finora, si è praticato moltissimo onanismo intellettuale ma dalle quali non sono uscite tesi applicabili alla politica reale degne di nota.

AG

sabato 17 aprile 2010

FINIsce qua?


Certo, non si può dire che la situazione venutasi a creare dopo l’incontro ad alta tensione di ieri tra Fini e il Cavaliere fosse inaspettata, come del resto la richiesta stessa di un confronto chiarificatore. Berlusconi non è il tipo da tirarsi indietro quando si richiede un chiarimento politico, ed il fatto che per qualche giorno avesse nicchiato, mentre il Presidente della Camera sollecitava l’apertura di un tavolo – a due – di discussione, era motivato dalla piena consapevolezza di quanto sarebbe stato detto e dalle conseguenze.

Non ce ne voglia il Presidente Berlusconi; non ci permettiamo di mettere in dubbio la sua capacità di analisi politica ma come era chiaro a lui che saremmo arrivati al punto in cui ci troviamo adesso, era chiaro un po’ a tutti. Ricaricate le pile, dunque, dopo l’estenuante ma soddisfacente campagna elettorale per le regionali si è calcato l’elmetto sulla testa e si è preparato a sostenere finalmente il conflitto “principe” che rode dall’interno il Popolo Della Libertà fin dalla nascita: quello tra lui e l’ex leader di AN.

I due uomini - lo possiamo dire - non si sopportano più. L’Uno (il Cav.) ricorda fin troppo bene il ruolo decisivo che svolse dal 1993, anno delle elezioni a Roma, nello sdoganamento della Destra italiana da “fascista” a forza di governo e per questo si aspetta riconoscenza; l’Altro (l’ex AN) non è abituato per natura a nutrirne e rinfaccia al Premier una gestione dirigistica e nordista del Partito. L’Uno è abituato a veder esaudite le sue direttive senza discussioni e l’Altro… anche. Con un “però” di discreta rilevanza: L’Uno ha i voti (e tanti) e vince le elezioni, mentre l’Altro ne ha considerevolmente meno e, da solo, un’elezione non l’ha mai vinta. Oltre a questo, si sono rese sempre più evidenti enormi differenze (proviamo ad usare una parola “pesante”) culturali e, di conseguenza, politiche.

Se si riflette, infatti, sull’intero percorso politico dei due, risulta cristallina la grande misura della distanza che li separa. Mentre Fini è nato con la politica, partendo da giovanissimo militante del Msi e scalando il partito, con l’aiuto determinante di Almirante, dalle dirigenze giovanili fino a diventarne il segretario, Berlusconi, dal canto suo, ritiene a torto o a ragione un vanto l’essere entrato in politica in età matura per l’essersi dedicato prima alla sua attività di imprenditore; ed è questa la principale e probabilmente insanabile differenza tra i due. Fini, comunque lo si voglia vedere, fascista o neo-democristiano, rappresenta a dispetto dell’età (ben più “giovane” di quella del Cavaliere) un politico di “vecchio” stampo, cresciuto a pane e sezione di partito, per il quale la militanza, più che le capacità, ha rappresentato la qualità essenziale per arrivare a dirigere il partito e per il quale l’Istituzione Statale rimane qualcosa di sacro ed inviolabile al quale il singolo cittadino deve sottostare e servire. In questo non è per nulla diverso dall’opposizione post-comunista rappresentata in parlamento dal PD. Berlusconi, invece, ha drasticamente modificato rivoluzionandola l’idea stessa del “fare” politica e con lei la figura del politico; cosa per il quale l’establishment istituzionale ed istituzionalista, anche economico, italiano l’ha sempre mal visto e mal digerito.

Siamo perciò arrivati alla resa dei conti e allo scontro finale di queste due visioni della società. Che cosa è lecito attendersi quindi ora? A nostro parere non molto nel breve periodo. Fini proverà a raggiungere la quota minima di deputati (20) e di senatori (10) per creare un nuovo gruppo parlamentare attraverso il quale provare a condizionare l’attività del Governo, senza però tirare la corda fino al punto di rottura ed evitando quindi elezioni anticipate che, nella sua posizione, equivarrebbero ad un suicidio per lui e per tutti quelli che vorranno seguirlo. Si prospettano tre anni di governo non inframezzati da campagne elettorali (ma ne siamo sicuri? E le molte comunali dell’anno prossimo?) nelle quali bisogna necessariamente dare un’idea di compattezza all’elettorato. Questi anni saranno però inevitabilmente viziati da questo “scisma” e a risentirne saranno le disgraziate riforme per intraprendere le quali, a causa di divisioni interne od esterne, non si riesce mai a trovare il giusto clima di dialogo.

Questa situazione, a ben vedere, può risultare fastidiosa per il PDL anche a causa di un altro motivo: è un salvagente tirato verso Casini e l’UDC la cui situazione, dopo la tornata elettorale regionale, non è certamente delle migliori. E’ balzato agli occhi di tutti, infatti, che l’UDC dove ha corso da solo è stato relegato al margine dai partiti più grandi; dove era alleato con il PD ha miseramente fallito; insieme al PDL ha vinto. Questo riduce drasticamente le possibilità di manovra di Casini e segna la fine della politica dei due forni grazie alla quale, nello scudo crociato, si puntava contemporaneamente sia a sopravvivere in questa condizione ibrida, sia comunque a cercare di guadagnare più posti di governo regionale possibili. La scontata soluzione sarebbe stata quella di un progressivo riavvicinamento (ma con la cenere in testa) dell’UDC al PDL. Ora, grazie all’insofferenza di Gianfranco, Casini avrà tutto il tempo per attendere la costituzione di questo nuovo soggetto politico centrista insieme a Rutelli e altri ex Margherita fuoriusciti dal PD, ben sapendo di poter trovare una confortevole sponda e – perché no? – un potenziale alleato in Fini che non si farà pregare per confluirvi.

Sarà certamente interessante osservare come si comporteranno non tanto i dirigenti di alto livello o i parlamentari ex AN, quanto i quadri intermedi, dalle regioni alle province ai singoli comuni. Seguiranno l’ex Capo o rimarranno in orbita PDL – Berlusconi? Tutto dipenderà da quale forma il Premier deciderà di dare al partito dopo la scissione, visto che un riassetto sembra a tutti inevitabile e, per alcuni versi, già in corso. Se vedranno che verrà premiata la precedente appartenenza a Forza Italia allora non si faranno scrupoli a riscoprirsi fedelissimi e ad accasarsi di nuovo vicino a Gianfranco (a costo di morir Democristiani), ma a nostro parere difficilmente lasceranno la casa dove già dimorano per trovarne una molto più spoglia di mobilia e, soprattutto, di voti. Nulla di strano: è politica, e l’autoconservazione è sempre il primo pensiero.

AG

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PC